Un progetto NPU
go to NPU site

* Geografie reali: appunti per una geografia metafisica

 

Intervento presentato al convegno Il paesaggio nell'era del mutamento, un problema deontologico, Convegno Nazionale di Studi, Mantova 6 giugno 2007, Politecnico di Milano, Polo Regionale di Mantova.

La realtà unica che lega il mondo fenomenico e l’imprescindibilità dell’osservatore dal fenomeno osservato sono scomode verità che stentano a uscire dai laboratori di fisica quantistica: il metodo scientifico è andato a pezzi. Quali sono le conseguenze sulla geografia nata dalle scienze esatte?
Scartiamo la moderna cartografia e i suoi orrendi prodotti moderni: la pretesa di poter creare un paesaggio a tavolino, concretizzatasi anzitutto nella lebbra urbanistica che sta ricoprendo il pianeta. Assaggiamo bagliori di geografie reali, non separate, in cui l’osservatore riprende la centralità che gli è propria. Questa è l’opposto dell’egocentrismo che pretende di osservare razionalmente il mondo e sé stesso dal di fuori; è invece soglia di una geografia metafisica.



Bagliori di realtà


Spesse volte viaggiando rimaniamo folgorati alla vista di un paesaggio: la maestosità, la bellezza, la coerenza di forme, colori e movimento dell’ambiente naturale ci soverchia: gli occhi, appannati dall’uso quotidiano, intossicati dalla bruttezza dei panorami moderni, si rinfrescano. Paesaggio: Larzac, Francia. Acquerello di viaggio

Con la scusa del disegno passiamo ore seduti immersi in quelle visioni. La contemplazione attiva del paesaggio promuove una lieve alterazione della coscienza: si tende a percepire lo spazio come “direzione” e il tempo come “avvenimenti”, i loro aspetti qualitativi piuttosto che quantitativi. Le impressioni visive divengono così più luminose, più ricche. E ci saziamo, essendo le impressioni cibo, al pari di quello propriamente detto e dell’aria.

Ma il degrado ambientale raggiunto dalla nostra civiltà ha comportato il graduale avvelenamento del nutrimento visivo, così come è successo per acqua, cibo e aria. Oggi, tutte le attività con le quali l’uomo crea un ambiente artificiale intorno a sé portano inevitabilmente a un impoverimento del paesaggio, e di conseguenza all’abbruttimento mentale di chi se ne nutre, gli abitanti: «Una società sempre più malata, ma sempre più potente, ha ricreato ovunque e concretamente il mondo come ambiente e scenario della sua malattia».

Limiti della geografia razionale


L’ossessione per la quantità e la misura della stessa è un prodotto delle scienze cosiddette esatte, meccanicistiche e razionali, da cui la geografia moderna è scaturita.Di descrivere lo sfacelo si occupa la geografia, degna figlia delle scienze esatte, meccanicistiche e razionali: dottrine necroscopiche (emblematica la nostra medicina, che per curare i vivi partì e parte dallo studio dei cadaveri), che si limitano a descrivere, a prendere atto di ciò che è, collezionando numeri e nozioni, crescendo in modo orizzontale, ingrassando. Favorite sono l’erudizione, la meccanicità e l’agitazione (opposto dell’azione), che portano a golosità e conseguente obesità intellettuale. Questo tipo di crescita è caratteristico del cancro: cancerosi e cancerogeni sono i prodotti delle scienze moderne, dall’urbanismo incontrollato al sovraccarico d’informazioni in rete.

La vera conoscenza, opposto dell’erudizione, ha invece una direzione di crescita verticale: il pensiero, digerite le impressioni, snello e leggero s’innalza al di sopra del piano orizzontale dei fenomeni, abbracciando gli opposti. Non fornisce risposte, che non sarebbero altro che una calcificazione della ricerca, bensì “rinnova” costantemente la questione, rilanciando la ricerca.

Certo, le scienze meccaniche funzionano, le accurate mappe odierne permettono spostamenti calcolabili e precisi. Sul piano della quantità e dell’accumulazione ciò è vero, ma quanto rivelano la loro natura ingannevole i numeri, quando si sia affetti da un male statisticamente irrilevante, quando un viaggio si trasformi in un tedio mortale per mancanza di avvenimenti: le mappe ordinarie non sono in grado di registrare la qualità dello spazio.

CARTOGRAFIE DEL POTERE


La geografia moderna è nata dalla corsa cartografica, concomitante alle grandi scoperte, ai viaggi di conquista delle potenze europee intorno al 1600. Gli esploratori, primi cartografi moderni, avanguardia di genocidi coloniali e schiavizzazione: la cartografia era e resta una tecnologia militare. Culmine della folle corsa a una mappa totale: il globo visto dal satellite. L’epilogo: la sua diffusione capillare tramite Google Earth.

La cartografia ben soddisfa l’ossessione per i numeri e le misure, specchio della quantità, il concetto che meglio definisce l’unico successo della nostra cultura: la proliferazione quantitativa.

L’illusione di esattezza e di onniscienza delle carte geografiche favoriscono gli’inganni, poiché abbassano le difese critiche del fruitore. La falsa illusione che non esistano più luoghi sconosciuti, l’apparente esattezza e onniscienza delle carte geografiche favoriscono gl’inganni. Già in antichità, sfrontati generali convincevano re greci a muover guerra all’Asia, presentando loro mappe in cui il continente non era più grande della Grecia stessa. Ben nota, ma ancor diffusa, la distorsione del planisfero rettangolare, con i quadranti più vicini ai poli (Nord America, Europa e Russia) ingigantiti, a fronte di un rimpicciolimento delle regioni equatoriali. Diverse proiezioni alternative, quali la mappa “a buccia d’arancia” sono stati tentativi imperfetti di riequilibro: nessuno ha rimediato alla distorsione.

Meno ovvia, l’orientazione nord-sud, che pone l’Occidente in una posizione di dominio sul “sud del mondo”. Ricordiamo che per secoli le mappe mostravano l’est nella parte superiore, come ancora suggerisce il termine “orientare”: volgere a oriente.

Lo strappo psicogeografico


Rivendicavano l’avventura, ma rifiutavano le mappe ordinarie, i situazionisti del primo dopoguerra. Cercarono il proprio passaggio a nord ovest con esplorazioni rigorosamente non scientifiche, vagando senza meta per Parigi come una barca alla “deriva”: s’apriva loro una città fluida. Le conclusioni di quelle esplorazioni, psicogeografiche come le chiamarono, le stesse a cui inesorabilmente giunge chi rifaccia l’esperienza attento e riposato: l’onnipresente pesantezza della proliferazione cementifera, la bruttezza che scorre nelle vene armate di ferro di tutti gli edifici moderni, lo spegnimento dell’aura che ancora emanava la città vecchia. E dire che in quegl’anni la «lebbra urbanistica», come la chiamarono, ancora non aveva del tutto sommerso città e campagna.

Che fare? Stretti fra l’abbruttimento interiore (etilico o conformista), specchio della bruttezza esteriore, e rivolta senza compromessi, vissero la loro stagione di gloria nel maggio del ’68 sapendosi mantenere più lucidi di tutti nel momento d’ipnosi collettiva, poi, lentamente, sclerotizzarono.

Poco sopravisse: lo spettacolo, macchina da guerra inglobante tutti i campi dell’esistenza , fagocitò quasi tutti i rimasugli.

Appunti per una geografia metafisica


V’era un tempo in cui la Terra, e di riflesso la sua particella pensante, l’uomo, sedevano al centro dell’universo, in cui l’asse del mondo e la colonna vertebrale coincidevano. Questo, per noi, voleva esprimere anzitutto un concetto: nessuna scienza può prescindere dall’osservatore, nessuna geografia può far a meno della psiche che la percepisce.

Quella copernicana fu una vera rivoluzione, ci si dimenticò che l’uomo è un centro di percezione della Terra, che l’obbiettività è un’illusione, e si credette di poter comprendere il conoscibile dall’esterno, con la ragione, come se essa non vi fosse invischiata tanto quanto l’oggetto che tenta di conoscere. Numerosi sono i paradossi generati da questo punto di vista, basti qui pensare a un antropologo che “conosce” i meccanismi sociali di comunità lontanissime, ma non sa spiegarsi perché se si alza "con il piede sbagliato" rimane di malumore tutta la mattina.

La geografia era una scienza sacra: non si costruivano templi, case e città a caso . Le regioni dello spazio erano sette: oltre ai quattro punti cardinali si contava lo zenit, verticale verso l’alto e il nadir, verso il basso. La settima era il centro stesso, il punto senza dimensioni da cui ha origine tutto lo spazio: il centro di osservazione.

SPOGLIARSI


Raramente le percezioni sensibili sono reali, perché devono attraversare le lenti deformanti del pensiero, delle idee e dei sentimenti precostituiti, ossia dell’abito culturale e geografico da noi indossato. Premessa imprescindibile per un lavoro psicogeografico: tentare di spogliarsi di quest’abito culturale, geografico e infine caratteriale, che ci allontana dalla realtà.

Un cosciente viaggio all’estero può essere un buon inizio per percepire il nostro abito culturale. Di più ardua percezione sono i riflessi che una particolare conformazione geografica ha sulla psiche di chi vi abita. Tuttavia si possono distinguere, con l’attenzione, per esempio, l’influenza di un isola sulla mentalità degli isolani, con identici tratti riscontrabili in Sicilia come in Gran Bretagna.

Rimane poi l’intimo, l’abito personale. Spogliarsi di quest’ultimo è opera di mistici e implacabili ricercatori. Noi dobbiam per ora accontentarci di quei rari momenti in cui l’intensità di alcune sequenze naturali è tale da penetrare da sé i vari strati che al tempo stesso ci soffocano e proteggono, riempendoci con “l’intransigenza della bellezza”:


"Tali sono l’alba e l’aurora, il tramonto e il crepuscolo; i movimenti perfettamente adeguati dell’animale: il volo dell’uccello o la corsa del daino; il calore materno, la delicatezza di una pelle, di una lana; il silenzio della sera, il suono costante eppur diverso della cascata, il canto dell’uccello, il brusio dell’albero; il scintillio delle stelle, il riflesso della luna, la purezza cristallina della rugiada o della lacrima; il profumo sempre nuovo di un fiore" [Bailey]

BIBLIOgrafia


* Per una discussione completa su quantità e qualità vedi: Renè Guenon, Le Règne de la Quantité e les Signes des Temps, Gallimard, Paris 1945 (ed. it. Il regno della quantità e i segni dei tempi, Adelphi, Milano 1982).
* Guy Debord, La Planéte malade, Gallimard, Paris 1971 (ed. it. Il pianeta malato, Nautilus, Torino 2005, p.5)
* Guy Debord, La societè du spectacle, Gallimard, Paris 1992.
* Per una brillante definizione dell’esperienza metafisica vedi: Elémire Zolla, Archetipi, Marsiglio, Venezia 1984, p.7.
* Hervé Bailey, Glossaire (inedito), Cantercel, Site expérimental d’architecture, La Vaquerie, Montpellier, Francia.

Dade Fasic per la NU*NPU, autunno 2007



Per saperne di più sulle mappe mentali: NPU web site/ mental maps (in inglese)


Back to the top


home | print | contact | design by Shtonk!

Creative Common copyright notice, some rights reserved